La Macchina del Perdono.

The Forgiveness Machine - Karen Green




La Macchina del Perdono.


Nel 2009 un'artista americana espose in una galleria di Pasadena, vicino Claremont, una macchina lunga quasi due metri. Stava appoggiata su un tavolo, al centro di una grande stanza. Ho trovato qualche fotografia di questa macchina: assomiglia a un grande apparato digerente ricostruito in plastica e poi disteso su una superficie orizzontale. Tubi arancioni, vasche gialle di transito e una sfera, a fine percorso, che ricorda, anche se più in grande, le palline con le sorprese che una macchina molto meno complessa ci restituiva da bambini in cambio di una moneta. Noi infilavamo la moneta - a volte in verità lo facevano i nostri nonni - poi giravamo la manopola - e quello però lo volevamo fare noi, non accettavamo aiuti da nessuno - e subito veniva giù un piccolo uovo di plastica trasparente. Noi lo prendevamo in mano con delicatezza, avevamo paura di romperlo, era la prima nascita a cui assistevamo, era la nostra prima esperienza da levatrici. Allora noi guardavamo l'uovo spiando la vita che c'era dentro, e poi, pieni di gratitudine, guardavamo la macchina di fronte a noi, che era gravida di palline tutte simili alla nostra. E quindi invitavamo gli altri a spiare insieme a noi quella specie di incubatrice sferica in cui stava rinchiusa la nostra sorpresa, che era anche la promessa, per noi, di una vita migliore. E infine - però lì senza nessuna pietà - rompevamo la pallina di plastica e ci prendevamo il regalo. Ecco, la macchina esposta nella galleria di Pasadena, vicino a Claremont, in California, era un apparato digerente in plastica lungo quasi due metri, il cui percorso culminava in una sfera di plastica trasparente. Solo che dentro non c'erano soldatini, non c'erano dadi colorati, biglietti, adesivi, non c'erano orecchini. Dentro c'era della carta ridotta in brandelli, c'era una polvere di carta che aveva attraversato tutti i condotti della macchina fino a raggiungere l'ultimo atto e cadere lì dentro come una nevicata finale. L'artista americana aveva ribattezzato quell'oggetto "Forgiveness Machine", la Macchina del Perdono. Il punto di partenza era una scatola con una fessura: l'artista invitava uomini e donne a infilare lì dentro un foglio su cui avrebbero dovuto scrivere il nome della persona, o la cosa, che avevano intenzione di perdonare. Ciascun visitatore arrivava, trovava carta e penna accanto alla macchina, scriveva e poi inseriva il foglio dentro la macchina. A quel punto lo guardava partire per la sua strada, scivolare lungo i condotti arancioni, transitare lungo le vasche gialle, sminuzzarsi a ogni passaggio di più. Fino a ridursi a quella pacificante nevicata finale dentro la sfera di plastica trasparente. Quella macchina serviva - o almeno, così era stata concepita - per perdonare i nomi di quelle persone i cui nomi venivano fatti a pezzi durante tutto il tragitto. La macchina era gravida di perdono, e il perdono era la vita neonata che dentro quell'uovo finale veniva generata per tutti. 

Quando avevo scoperto dell'esistenza della Macchina del Perdono avevo fatto di tutto per mettermi in contatto con l'artista americana. Non saprei dire perché, che cosa mi muovesse. Forse era il desiderio di perdonare. Forse, viceversa, era quello di essere perdonato. Forse soltanto l'idea che la letteratura fosse essenzialmente quello: un tritato di parole che generava una pacificante, per quanto illusoria, nuova vita. E così le avevo scritto una lettera. In quei giorni segnavo frasi che avrei voluto infilare dentro la Macchina del Perdono; erano fogli identici a quelli che avevo visto nelle foto scattate nella galleria di Pasadena, erano strisce di carta rosa della dimensione di una banconota. Ogni banconota, un nome. Oppure un episodio che avrei voluto perdonare. Una fidanzata che mi aveva tradito in vacanza con il mio migliore amico, un amico che mi aveva chiesto dei soldi e non me li aveva mai restituiti o un compagno di banco, alle elementari, che mi aveva tagliato con le forbici la tuta da ginnastica. O mio padre, che un giorno mi aveva sbattuto contro un muro e aveva fermato il pugno a pochi centimetri dal viso. O mia madre, che non aveva detto nulla. Su una di quelle banconote avevo segnato anche il nome di un vicino di casa che, quando ero piccolo, mi aveva bucato il pallone perché non ne poteva più dei miei lanci che gli finivano in casa. E su un'altra un uomo, che un giorno al Luna Park, quando avevo sedici anni, mi aveva preso a schiaffi perché gli avevo detto che mi aveva rubato il cappotto. E dopo l'aveva tirato fuori dal bagagliaio della macchina e me l'aveva restituito assieme a un altro paio di schiaffi. Su un'altra banconota avevo scritto il nome di un ragazzo che conoscevo, che una sera aveva ucciso una delle persone più care che avevo in un incidente stradale. E io l'avevo saputo sentendo il suo nome alla radio. E poi avevo scritto anche "me", su uno di quei fogli, e poi però pensavo che la macchina non l'avrebbe capito e allora avevo scritto il mio nome e il mio cognome in lettere grandi. Per giorni ero andato avanti in quel modo, banconota dopo banconota, accumulando un bottino che poi avrei voluto spedire all'artista americana che aveva inventato la Macchina del Perdono. Che lo facesse lei per me, per favore, di perdonare. Ma la lettera che le avevo scritto non aveva avuto risposta. La mia mazzetta di fogli, legati con un elastico, l'avevo lasciata appoggiata sul tavolino all'ingresso. Ogni tanto la sfogliavo, aggiungevo magnanimo qualche foglietto con nomi da perdonare. Una sera, in un momento di rabbia, ne avevo sfilati due, dentro c'erano scritti due nomi con i quali in quel momento ero furioso. E però nel farlo mi ero sentito un po' in colpa, e così li avevo lasciati accanto al mazzo del perdono, da soli, penitenziali. Dopo qualche tempo poi mi ero stancato e avevo messo il mazzo dentro a un cassetto in cui tenevo di tutto: portafogli che non usavo più, orologi a cui non avevo mai sostituito la batteria, telefonini rotti, chiavi di serrature nel frattempo cambiate. E quindi non c'avevo più pensato. 

E poi... Poi erano passati due anni e mi ero dimenticato del tutto dell'artista americana che aveva progettato ed esposto la Forgiveness Machine a Pasadena, vicino Claremont, in California. Nel frattempo avevo cambiato casa, anche se ero andato a vivere a cinquecento metri da dove stavo prima. Ma nel trasloco, insieme a tante altre cose di cui volevo liberarmi da tempo, avevo gettato via il mazzo del perdono. L'avevo appoggiato sopra a una pila di giornali e riviste che ora dopo ora cresceva accanto all'ingresso. Seduto in terra, tra scatoloni pieni di scarpe e ciabatte, tra stoviglie poggiate per terra in cerca di un contenitore e armadi mezzi vuoti e spalancati, sfogliavo le riviste prima di gettarle vie insieme al resto della carta. E lì, starnutendo per la polvere, mi ero imbattuto in un'intervista alla vedova di David Foster Wallace, lo scrittore americano morto suicida nel 2008. Era stata proprio lei a trovarlo impiccato a una trave dentro il garage, il 12 di settembre di quell'anno. In quelle pagine diceva che era difficile perdonare una persona che compie un gesto del genere. Ricordo che quando era successo, quando avevo avuto la notizia del suicidio dello scrittore americano David Foster Wallace, un amico filosofo mi aveva detto che il suicidio è sempre contro qualcuno. Il suicida ha un nemico, mi aveva detto, solo che il nemico è rimasto imprigionato dentro di lui. L'ha assediato, e dopo averlo assediato l'ha ucciso. Esattamente come se fosse stato fuori di lui. Se solo l'avesse fatto uscire, aveva tentato di convincermi il mio amico filosofo, avrebbe potuto dargli la caccia per tutta la vita. Se l'avesse liberato, sarebbe stata la sua ragione di vita. Avendolo messo in catene dentro di sé, invece, era diventato la sua ragione di morte; l'aveva condannato a morte per poi, fatalmente, morire con lui. In quell'intervista la moglie di David Foster Wallace, il cui nome in effetti avrebbe dovuto mettermi in allerta, diceva che lei non riusciva a perdonarlo fino in fondo per averla fatta finita in quel modo. C'era un patto tra di loro, il patto era di non nascondersi nulla. Suo marito ci aveva provato altre volte ad uccidersi, ma poi per qualche ragione non c'era riuscito. Pensava di averla scampata, ma non poteva sapere che il nemico era ancora dentro di lui, era ancora la sua ragione di vita. Per questo lui continuava a dargli la caccia. Ad ogni modo, diceva, il dolore era ancora vivo. Era ancora troppo presto - l'intervista era del maggio 2011 - e forse un giorno, chissà quando però, ci sarebbe riuscita a perdonarlo. Ma non era facile, diceva, perdonare una persona che aveva fatto del male in quel modo, buttando la morte addosso agli altri, scagliandola contro i vivi. E a quel punto l'intervistatore aveva chiesto: "Ma scusi, ma come fa a dire questa cosa, lei che ha inventato la Macchina del Perdono?". E allora, di colpo, con un brivido lungo la schiena, seduto in terra in mezzo agli scatoloni, avevo capito che quella Karen Green, la vedova di David Foster Wallace, era l'artista americana a cui avevo scritto due anni prima - senza peraltro ricevere risposta - e che aveva progettato quella struttura di due metri che fagocitava persone in forma di parole e restituiva il perdono con una nevicata di carta e di parole tritate. Karen Green rispondeva a quella domanda, "Come fa a non perdonare, proprio lei che ha inventato un modo per delegare il perdono a una macchina senza sentimenti?", rispondeva a quella domanda raccontando le reazioni delle persone di fronte alla Macchina del Perdono. 

Karen Green

A quel punto, seduto in terra in mezzo al guado tra due vite, tra un appartamento in cui era fallita una vita e un altro in cui ne stava cominciando un'altra, io avevo cominciato di nuovo a starnutire. E poi ero tornato alla lettura dell'intervista a Karen Green. Sulle prime, diceva, i visitatori della sua mostra erano eccitati, erano persino divertiti, non la prendevano troppo sul serio, in fondo. Guardavano la Forgiveness Machine come se non fosse altro che un giocattolone appoggiato su un tavolo di una galleria d'arte. Un grande apparato digerente con tubi gialli e arancioni che aveva quel simpatico nome che, per di più, consentiva di giocare a un gioco che era serio, nella sua dicitura, ma in fondo non era serio nelle conseguenze. Niente di troppo serio, insomma. Una trovata ludica, brillante, la trovata di un'artista figurativa contemporanea. E così si avvicinavano al giocattolone, prendevano la penna e qualche banconota rosa ridendo e poi si mettevano in un angolo e scrivevano dei nomi sui fogli. Poi si avvicinavano, ed è lì, commentava Karen Green, che cominciavano le reazioni più impreviste dei visitatori. Molti di loro, infatti, arrivavano di fronte alla macchina e poi quando stavano per infilare il foglio dentro alla fessura, quando già avevano sollevato la mano, di colpo si bloccavano. Restavano paralizzati, la faccia che di colpo si scuriva, le labbra che si contraevano, perdevano sangue. E se erano venuti in compagnia guardavano l'amico o il parente, guardavano il marito, la moglie, chiedevano aiuto. Ma gli altri non capivano, e stavano tutti lì intorno a scherzare, a prendersi gioco di loro, a pregustarsi il momento in cui sarebbero stati loro stessi davanti alla Macchina del Perdono. Non capivano affatto il dramma in cui queste persone erano finite, precipitate, come si cade dentro a un crepaccio che si è aperto sullo stesso suolo in cui stavano camminando. Alcuni poi vincevano quella paura, infilavano il foglietto nella fessura. Il timore di Karen Green, c'era scritto nell'intervista, in realtà era solo che tutto funzionasse, che il pezzo di carta riuscisse davvero a raggiungere la sfera finale per poi sfarinarsi come dentro una palla di neve. Il timore di chi infilava le banconote con sopra scritti dei nomi, invece, era tutt'altro. Seguivano con gli occhi sgranati la carta lungo tutto il percorso, spostandosi con i piedi accanto alla macchina, avvicinando gli occhi ai tubi arancioni con malcelata apprensione. E solo quando arrivava alla fine, solo allora, facevano un sospiro lunghissimo. Qualcuno chiudeva gli occhi e dalle palpebre chiuse veniva fuori una lacrima che scendeva giù, gonfia, e si rompeva sopra le guance. E tanti, tanti invece non ce la facevano. Il terrore che li prendeva davanti alla Macchina del Perdono era tale, che rifiutavano di sottoporsi a quello che all'inizio era sembrato a tutti soltanto l'eccentrica trovata di un'artista californiana. In molti scoppiavano a piangere, qualcuno scappava via accartocciando tra le mani i fogli su cui aveva scritto i nomi delle persone a cui avrebbe concesso, per gioco e dunque per finta, il perdono. La domanda che aveva paralizzato queste persone e che anche per un solo istante le aveva inquietate era per tutte la stessa: "E se dovesse funzionare? E se funzionasse davvero, che cosa succederebbe? Dovrei davvero perdonare mia madre? E che cosa ne sarebbe di me se la mia ex moglie fosse perdonata? O mio figlio, il mio capoufficio, il mio dirimpettaio, il cinese del terzo piano, la suocera?" Dentro lo smarrimento e forse il panico, di questi uomini e di queste donne,  di fronte alla Macchina del perdono, c'era l'abisso che si spalancava, le fauci di una sola domanda: "E se davvero funzionasse?" 

Ho cambiato casa e di tutta la pila di giornali ho tenuto solo quel foglio. L'ho strappato dalla rivista e per oltre un anno ho tenuto ripiegata dentro il portafogli l'intervista a Karen Green, l'artista americana che ha costruito una Macchina del Perdono e che però non era in grado di perdonare un uomo, suo marito, che un giorno, dopo averci più volte provato, era riuscito a uccidersi appendendosi a una trave dentro il garage della loro casa. Ho pensato più volte all'espressione di quegli uomini e di quelle donne che, dopo aver scritto i nomi delle persone che volevano perdonare, si tiravano indietro e si spaventavano. Sui fogli avevano scritto i nomi dei loro nemici, lettera dopo lettera. E poi però, che cosa era avvenuto quando si erano trovati davanti alla bocca di quella macchina e avevano deciso di non consegnarle le banconote rosa? Era successa una cosa molto semplice e spaventosa insieme: era successo che volevano tenersi il nemico per sé. Volevano innaffiare l'orto del nemico, prendersene cura ogni giorno, potarlo, proteggerlo anche dai freddi quando fosse arrivato l'inverno, volevano trattarlo come una pianta rara e delicata. Non volevano rischiare che potesse avverarsi quel sortilegio eventuale che delle parole tritate potessero davvero sottrarre loro il nemico. Non avevo visto gli occhi di cui parlava Karen Green nell'intervista. Nascondevano un'altra domanda che era possibile sintetizzare in questo modo: "Che cosa ne sarà di me, se avrò perdonato? Che cosa ne sarà di me senza un nemico?" E mi erano venute in mente alcune pagine di un libro che lo scrittore svizzero Max Frisch aveva scritto durante un soggiorno negli Stati Uniti, tra la primavera e il novembre del 1982. "L'Unione Sovietica," scrive Frisch commentando un discorso televisivo di Reagan, "è un nemico. Occorre quindi che essa sia indebolita. In questo modo," aggiunge, "se il nemico dovesse attaccare, gli americani passeranno al contrattacco e con i missili ancora integri distruggeranno il nemico in ogni angolo del pianeta." In quello stesso periodo aveva scritto anche un altro romanzo, in cui c'era una frase - o così mi sembrava di ricordare - che aveva a che fare con la Macchina del Perdono di Karen Green. Sono andato a cercare quel libro e per giorni non sono riuscito a trovarlo nella nuova casa, durante il trasloco li avevo sistemati alla rinfusa sugli scaffali incurante dell'ordine alfabetico dei libri. Mi ero preoccupato solo di liberare gli scatoloni in cui erano contenuti e così, per giorni, setacciavo le coste dei libri, sudando e imprecando ad alta voce, finché stremato non riuscivo a trovare quello che stavo cercando. E una volta scovato il libro di Frisch trovai anche la frase che cercavo. Ero convinto che riguardasse il perdono e invece riguardava la colpa: "Ce n'è bisogno, della nostra colpa," scrive Max Frisch, "essa giustifica molte cose nelle vite altrui." Era la stessa risposta che avrebbero potuto dare tutti i nomi graziati dalla Macchina del Perdono, portati fino a un passo dall'esecuzione e poi salvati, con una grazia concessa all'ultimo per incapacità di perdonare. Ciascuno dei nomi scritti su quelle banconote rosa e mai infilati nella fessura della Macchina del Perdono, ciascuno di loro avrebbe potuto dire, in maniera persino subdola, "Ce n'è bisogno, della nostra colpa. Ne hai bisogno, perché essa giustifica molte cose nella tua vita." 

In quegli stessi giorni, seduto in terra nella nuova casa, tentando di mettere in ordine i miei libri con qualche criterio, mi è capitato tra le mani un libro fotografico sulla caduta del Muro di Berlino. Si trattava del catalogo di una mostra che era stata allestita nel 2009, lo stesso anno in cui Karen Green aveva esposto a Pasadena la sua macchina, per i vent'anni dell'anniversario della caduta del Muro di Berlino. Ho sfogliato le pagine e mi sono fermato a guardare le fotografie. Ce n'erano molte uguali a quelle che conosciamo: uomini e donne in piedi sopra al muro con i martelli, con le bocche spalancate di gioia. E ce n'erano altre che ritraevano le facce delle persone quando erano passate dall'altra parte, approdate a Berlino Ovest. C'erano estatici bambini con la Coca-Cola in mano, c'erano donne ferme rapite davanti alle vetrine e c'erano ragazzi in piedi sulle macchine e famiglie che correvano lanciando i vestiti in aria. E poi... Poi però c'era la foto di una donna, più o meno sui sessant'anni, che aveva degli occhi che sembravano pieni di paura, che avevano uno sgomento profondo. E quegli occhi, a vederli lì, grandi in mezzo alla pagina, erano occhi che sembravano dire: "E adesso? Che succede adesso che il Muro è abbattuto?" Dovevano essere gli stessi occhi che avevano le persone che seguivano il proprio foglio di carta lungo i due metri della Macchina del Perdono, fino a quando lo vedevano venire giù ridotto come polvere bianca. "E adesso?" 
E però, dopo lo sgomento, serviva il coraggio. Negli occhi di quella donna dopo lo sgomento era necessario il coraggio. E mi sono chiesto che occhi avessero i visitatori della galleria di Pasadena che erano andati fino in fondo all'esperimento. Nell'intervista Karen Green non ne parlava delle reazioni delle persone dopo. E allora ho chiuso il catalogo della mostra sul Muro di Berlino e ho pensato agli uomini e alle donne che ho incontrato in Romania, alcuni anni dopo la caduta di Ceaușescu, quando il paese sembrava ancora più impoverito e sfiancato di quanto non fosse prima. E c'erano questi uomini e queste donne che mi chiedevano: "E di tutto questo, di chi è la colpa?" E mi è venuto in mente un amico, che il giorno in cui gli era morto un collega, il suo peggior nemico, era distrutto. E infine mi era venuto in mente uno striscione, dietro cui marciavano degli studenti di sedici anni durante una manifestazione, su cui c'era scritto: "Diteci per favore con chi ce la dobbiamo prendere". E quel "per favore" era la parte più straziante dello striscione. E quanto coraggio serve, mi chiedevo guardando gli occhi di queste persone, per restare senza il nemico, quanta vita serve? Con quali passi si torna indietro da una macchina che ha perdonato al posto tuo? E però ero contento che un'artista a Pasadena, vicino Claremont, in California, avesse inventato quella macchina. Ed ero contento anche che, in fondo, quella stessa persona non fosse capace di perdonare un uomo per essersi tolto dalla sua vita. Ho tirato fuori dal portafogli l'articolo e ho riguardato la foto; in fondo a quel giocattolone c'era la grande sfera di plastica trasparente, simile alle palline con le sorprese che da bambini ci regalava il distributore. E ho pensato, guardandola, a quanto sarebbe stato bello stare dentro quella sfera trasparente e poi aspettare la discesa di tutti quei fogli tritati, di tutti quei nomi perdonati, e poi stare lì dentro, come dentro una boule de neige, aspettando quella nevicata che poi sarebbe scesa lenta su di noi e che, a poco a poco, ci avrebbe coperti.













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